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Scritto nel paesaggio
- Paesaggi di guerra
- Infrastrutture belliche
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I due fronti
- Inverno tra le Tre cime
- La vita dei soldati
- Sanità, riti religiosi, cimiteri
- Personaggi
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Fronte interno e memoria
- Distruzione ed evacuazione
- Ritorno e ricostruzione
- Voci da Sesto
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La guerra in alta quota richiese uno sforzo logistico e materiale non indifferente per la cura dei feriti e dei malati. In alta montagna erano presenti soltanto strutture di primo intervento, mentre strutture intermedie, più spaziose e organizzate, erano localizzate nel fondovalle. Per i casi più gravi era previsto il trasferimento in ospedali militari in territori anche lontani dal fronte. Oltre alle fotografie storiche, restano ricordi dell’infrastruttura sanitaria e le biografie dei medici che lavorarono al fronte o che lo visitarono.
Per molti la religiosità rivestì un ruolo importante nel rendere sopportabile la durezza della guerra. Quella privata, dei singoli soldati, si può ricostruire con estrema difficoltà attraverso qualche oggetto o diario personale. I riti della religiosità ufficiale, invece, sono documentati da fotografie, disegni e fonti scritte. Tali fonti evidenziano come la religiosità stessa venisse spesso strumentalizzata a fini di propaganda e per supportare lo sforzo bellico. Parroci e cappellani, come il Feldkurat Josef Hosp da parte austriaca e don Pietro Zangrando da parte italiana, sostennero con convinzione le cause dei rispettivi stati maggiori, intervenendo anche in prima persona: sul fronte fede e patriottismo erano strettamente intrecciati.Gli stati maggiori predisposero numerosi cimiteri per i caduti. In quota si trovavano cimiteri d’emergenza, in alcuni casi collocati nei pressi delle prime linee. Di questi luoghi il tempo ha lasciato tracce a malapena visibili. Sul fronte austro-ungarico sono noti il cimitero di Toblingerdörfl e quello di Zirbenboden, entrambi ben documentati dalle fotografie dell’epoca. Tra le due guerre le spoglie dei soldati vennero riesumate e spostate nei grandi cimiteri dedicati ai caduti, negli ossari o nelle tombe di paese, in parte per motivi ideologici e politici. (GF, SK)
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Nella seconda metà del XIX secolo Sesto divenne una località turistica popolare e ben frequentata, conquistando una certa prosperità. Le Dolomiti di Sesto seducono con un paesaggio incomparabile e, per gli alpinisti amanti della montagna, con l’opportunità di conquistare le vette con le famose guide alpine locali. Da tempo immemorabile, però, Sesto era anche una città di confine con il Regno d’Italia e quindi inserita nelle strutture militari e nei piani per un’eventuale azione bellica. Lo sbarramento di Sesto, con le fortezze di Haideck e Mitterberg, doveva impedire un’avanzata e uno sfondamento italiano in Val Pusteria. Costruite negli anni ottanta del XIX secolo, allo scoppio della guerra le fortezze erano ormai obsolete e difficilmente in grado di resistere al fuoco dell’artiglieria moderna; nonostante ciò, entrambe furono comunque utilizzate dalle truppe imperiali, anche se solo per confondere il nemico. La vita in una zona diventata improvvisamente prima linea non fu facile per gli abitanti di Sesto. Gli acquartieramenti e le requisizioni militari a Sesto e a Moso misero a dura prova i rapporti tra la popolazione e le esigenze dell’esercito.
Questa sezione intreccia l’indagine sulle vicende di Sesto e dei sestesi negli anni del conflitto bellico – attraverso i risultati della ricerca storico-archivistica – a quella sulle culture della memoria della Prima Guerra Mondiale nei discendenti e negli abitanti di Sesto – attraverso la ricerca socio-culturale –, coinvolgendo le comunità locali nella co-produzione di un patrimonio comune. (SK) -
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Quando le prime granate italiane caddero sul villaggio nel luglio del 1915, divenne subito chiaro che gli abitanti di Sesto non potevano più sentirsi al sicuro nella loro casa. All’inizio di agosto arrivò l’ordine di evacuare il villaggio con un’operazione notturna immersa nella nebbia. Gli uomini erano già in guerra, e furono soprattutto le donne, i bambini e gli anziani a dovere impacchettare i beni di prima necessità e fuggire dal villaggio. Molti cercarono rifugio presso parenti e amici nei villaggi vicini. All’inizio, pochi di loro pensavano che il loro soggiorno sarebbe durato a lungo. Ma le cose cambiarono quando il 12 agosto le granate incendiarie italiane colpirono il villaggio e diversi edifici, fra cui la chiesa parrocchiale, vennero distrutti dalle fiamme. Alcuni oggetti di valore furono salvati dai soldati, ma molti sestesi videro tutti i loro averi andare in frantumi. Solo pochi rifugiati riuscirono ad assicurarsi una casa e un reddito regolare durante la guerra. Chi aveva presto esaurito i propri contanti e risparmi e non era in grado di provvedere a se stesso e ai propri parenti dovette rivolgersi alle autorità statali. Le innumerevoli richieste di sostegno ai rifugiati inoltrate allo Stato austriaco ci aiutano oggi a ricostruire il difficile destino dei più poveri tra i rifugiati in esilio. Grazie alla fama della località turistica di Sesto, soprattutto nell’alta società viennese, vennero realizzate con successo alcune campagne di raccolta fondi e di aiuto, che andarono a beneficio della popolazione di Sesto e la sostennero nel superare almeno i momenti più difficili. Tuttavia, molti di loro avevano un forte desiderio di tornare a casa il prima possibile. (SK)
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La direzione militare imperiale e reale non permise ai singoli contadini di tornare nella frazione di Außerberg fino alla metà dell’estate del 1917, quando fu loro consentito di fare ritorno per occuparsi del raccolto. Queste famiglie erano accompagnate anche dal parroco Heinrich Schwaighofer, e per loro fu costruita una piccola cappella nel bosco per le messe (la Waldkapelle). Solo dopo l’allontamento del fronte in seguito alla rotta di Caporetto nel 1917, nella primavera del 1918 molti sestesi tornarono in paese e iniziarono i primi lavori di sgombero e ricostruzione. Tuttavia, nell’ultimo anno di guerra le difficoltà della popolazione, aggravate dall’inflazione e dalla scarsità di cibo, furono grandi e alcune famiglie furono costrette ad affidare i propri figli a contadini di altre comunità, non riuscendo a procacciare lo stretto necessario per sé. La vera e propria ricostruzione del villaggio poté iniziare solo quando Sesto fu annessa allo Stato italiano, che finanziò le opere di ricostruzione. Finalmente, nel 1923, otto anni dopo la distruzione e la fuga della popolazione, la ricostruzione del villaggio fu celebrata con una festa. Il villaggio e i suoi abitanti, dopo il periodo più difficile della loro storia, hanno cercato negli anni successivi di ripristinare ed espandere il proprio status di villaggio turistico popolare e apprezzato. (SK)
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Sentieri, mulattiere, carrareccie, trincee, postazioni per artiglieria e mitragliatrici, caverne, baracche, cimiteri, ogni struttura realizzata dalle mani dell’uomo ha lasciato delle tracce sull’altopiano, trasformandolo profondamente. Strettamente legate al paesaggio, le infrastrutture si innestano e si inscrivono su di esso, modellandolo e restando visibili anche oltre cento anni dopo il conflitto.
Sia da parte austriaca che da parte italiana, l’infrastrutturazione del territorio si componeva di tre linee principali: le postazioni avanzate (quelle che avevano il primo impatto con il fronte avversario; potevano avere anche una funzione offensiva, come il Sasso di Sesto e la Torre di Toblin), quelle di massima resistenza (il fronte vero e proprio, con tutti i suoi sistemi difensivi, come la Torre dei Scarperi o Forcella Lavaredo) e le posizioni sussidiarie (le retrovie, con tutti gli apparati logistici). Considerando le accidentalità del terreno e le distanze, anche i collegamenti lungo il fronte potevano essere problematici, soprattutto nei mesi invernali, e perciò ci si attrezzò con linee telefoniche e telegrafiche, sistemi ottici di comunicazione, oltre che con potenti teleferiche, a motore e a mano, per il trasporto di materiali. Durante la notte, ampi fasci di luce prodotti da fari e riflettori illuminavano il lembo di terra fra i due fronti, cercando di impedire azioni di sorpresa. Colpi di cannone, di obice, di mortaio scandivano le giornate dei soldati, modellando il paesaggio con inconfondibili crateri. (GF) -
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Il paesaggio che caratterizza l’area su cui si è concentrata la ricerca del progetto WiL è quello dolomitico di media e alta montagna, su cui si sono innestate strutture e infrastrutture militari. Da un punto di vista naturalistico, particolarmente efficace si rivela una relazione monografica del I Corpo d’Armata Italiano del 1917, in cui si legge: “La regione in esame fa parte delle alpi dolomitiche, di cui forma l’estremo lembo orientale, ed in essa si notano spiccatissimi i caratteri della formazione triassica, con disturbi tettonici locali […]. I fenomeni dell’erosione hanno intensamente agito sulla dolomia, elemento costitutivo di queste rocce, così da formare pendii irregolari e ripidi, solcati da profondi canaloni. L’esempio tipico dell’intensità di tale erosione è dato dalle Tre Cime di Lavaredo; e là dove essa si è manifestata maggiormente, sono stati messi a nudo scisti e arenarie”.
La relazione è molto dettagliata e si sofferma anche sull’intricata situazione dell’acqua: “Dalla complessità orografica della regione risulta di naturale conseguenza una corrispondente complessità idrografica e degno di nota è il fatto che in una zona relativamente piccola si hanno corsi d’acqua svolgentisi in direzioni diverse ed opposte. Così, mentre il Rio Marzon, il Rio Cengia e il Rio Giralba hanno tutti la direzione generale nord-sud, il Bacher Bach va da sud a nord; e mentre il Boden Bach si svolge da ovest ad est, la Schwarze Rienz [Rienza Nera] scende da est verso ovest”. Seguono considerazioni di tipo climatico, in cui si registrano le temperature minime invernali, che possono scendere a -30°C, e approfondimenti sulla vegetazione, che va dal bosco di conifere, al mugo, al rododendro.1Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, Monografie del I Corpo d’Armata – Genio – Sistemazione difensiva, AUSSME_B1_110D_23A.
Un paesaggio naturale complesso, dunque, che non rese semplice la vita in quota per le centinaia di uomini che si fronteggiarono per ventinove mesi, estate e inverno, al cospetto delle Dolomiti. (GF) -
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Per i soldati che si trovarono a combattere sull’Altopiano delle Tre Cime gli inverni erano lunghi e nevosi. La neve cadeva da ottobre ad aprile e poteva durare anche fino a giugno inoltrato nelle zone in ombra delle cime più alte. La temperatura minima arrivava spesso fino a -30°C durante la notte, aggirandosi intorno agli 0°C durante il giorno.
Il gelo e le valanghe diventarono presto pericoli familiari. Per aiutare i soldati a sopravvivere in tali condizioni entrambi gli stati maggiori fornirono loro un equipaggiamento e delle istruzioni dettagliate. Ciascun soldato italiano, ad esempio, riceveva in dotazione due serie di indumenti di lana e tre coperte pesanti. Le truppe in trincea ricevevano anche cappotti e calzari con pelliccia, zoccoli da trincea, passamontagna, gambali, calze, indumenti impermeabili e sacchi a pelo. Per evitare il congelamento si distribuiva del grasso antiossidante da spalmare sui piedi. Per limitare i danni delle valanghe, gli ufficiali di entrambi gli eserciti avevano a loro disposizione delle mappe in cui venivano segnalati i punti con maggior probabilità di distacco nevoso. Malgrado ciò, l’inverno in quota provocò centinaia di vittime.
Col passare del tempo, gli stati maggiori iniziarono a sfruttare a loro vantaggio le condizioni invernali. L’attacco al Sasso di Sesto del 21 aprile 1917 ne è un chiaro esempio. L’avvicinamento di membri dell’esercito austro-ungarico alle linee italiane avvenne attraverso una galleria scavata per centinaia di metri nella neve. Questo tunnel permise di cogliere di sorpresa le sentinelle e conquistare temporaneamente la posizione. Si richiese inoltre l’addestramento di reparti specializzati nell’utilizzo di attrezzatura invernale, fra cui gli sci utilizzati per azioni furtive e colpi di mano e le slitte per il trasporto di materiali. (GF) -
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Le sfide che i soldati dovevano quotidianamente affrontare su un fronte di alta montagna come quello delle Dolomiti di Sesto non erano per nulla semplici, soprattutto nei freddi mesi invernali. Valanghe, gelo, carenza di rifornimenti erano eventi molto familiari per i militari impegnati sull’altopiano. Anche nei mesi estivi, tuttavia, la situazione non era rosea, perché alla neve si sostituivano le bombe, i colpi di fucile e di mitragliatrice. A volta le condizioni di vita divenivano insopportabili e qualcuno finiva per disobbedire agli ordini dei superiori: in quel caso interveniva la giustizia militare, spesso con massima severità. (GF)
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